giovedì 28 maggio 2015

Sarajevo, l’anima dei balcani


Ore 11, il treno si ferma al binario 1, da Mostar a qui tre ore di viaggio attraverso uno dei più suggestivi ed affascinanti itinerari ferroviari dell’Europa. La stazione è un enorme edificio, altissimo e per lo più vuoto e spoglio. Pochi i passeggeri presenti, purtroppo non sono moltissimi i treni che partono ed arrivano nella capitale bosniaca.
L’impatto iniziale è piacevole, la città è ricca di vita, i tram percorrono il viale centrale ed alcuni bambini per viaggiare gratis si siedono sull’organo di aggancio delle vetture.  Nella parte occidentale della città vecchia appare evidente la presenza della dominazione austro-ungarica sia nello stile degli edifici che nella disposizione regolare delle strade ma piano piano si avverte il passaggio alla zona
ottomana. Stretti viottoli acciottolati, intrighi di stradine e ci si ritrova nella Bascarsija, l’antico mercato e nucleo originario di Sarajevo. La città rappresenta benissimo quel punto di incontro fra oriente ed occidente, un luogo dove oggi tornano a convivere ed integrarsi culture differenti. Stupisce vedere giovanissime ragazze con abiti mozzafiato di fianco a donne con il velo in testa, uomini che bevono il tradizionale caffé turco e moderni bar dove la birra è sorseggiata come acqua e ancora chiese cattoliche ed ortodosse, sinagoghe e mosche a poca distanza una dall’altra. Sarajevo, capitale culturale dell’ex Jugoslava, è stata per anni l’incrocio fra le diverse anime del paese, un luogo di tolleranza e convivenza e ciò la rese un centro effervescente e pieno di vita. Poi l’odio e la distruzione di una guerra fratricida foraggiata e sostenuta da alcune potenze Occidentali. Le vie del centro portano ancora visibile le ferite del recente conflitto, in alcuni punti, come monito, sono stati lasciati sull’asfalto i buchi fatti dalle granate e riempiti di vernice rossa per ricordare il sangue delle vittime, le Rose le chiamano qui. Le guardo e la mia mente torna alle immagini dei molti edifici ancora devastati della seconda città bosniaca e ai racconti di quei tragici giorni fatti da Miran. Giungo in una grande piazza, le estremità laterali sono occupati da una lunga fila di gazebo con ricami orientaleggianti, sotto diverse persone intente a cucinare. Siamo in pieno Ramadan, il mese nel quale dall’alba al tramonto per gli islamici si pratica il digiuno e qui si sta preparando il pasto che al momento consentito i fedeli consumeranno tutti insieme. L’estremità inferiore è occupata da un gruppo di uomini messi in circolo, gli occhi concentrati su una scacchiera gigante disegnata per terra. Silenzio interrotto da qualche commento, al centro i due giocatori con i volti seri e riflessivi, pronti a ragionare su ogni singola mossa dell’avversario. Sono principalmente uomini di mezza età ma vi è anche qualche giovane. Scacco matto, una stretta di mano, qualche marco, le valutazioni dei presenti ed avanti il prossimo. Noto sullo sfondo la grande cattedrale ortodossa che completa questo stravagante quadretto. La voce del muezzin che risuona dal minareto della moschea attira la mia attenzione. Le diverse cupole che ricoprono il luogo di culto splendono di azzurro lucente quasi accecante, al suo ingresso una folla di credenti e curiosi. Vado oltre e mi ritrovo in uno dei luoghi che ha segnato la storia del secolo appena trascorso. E’ qui che il giovane studente Gavrilo Princip uccise l'erede al trono di Austria e Ungheria l'arciduca Francesco Ferdinando, costituendo il casus belli della prima guerra mondiale. Conflitto al quale seguirono gli orrori della seconda con l’occupazione nazifascista e il massacro della popolazione slava, per arrivare poi agli anni novanta e a quello scontro impensabile e imprevisto. Un filo lega tutti questi eventi che evidenzia come nazionalismo e imperialismo siano all’origine di tale barbarie.
Adisa vive a Sarajevo da anni ma è originaria di una città qua vicino, tra una birra e l’altra mi racconta del suo paese. “Gli stipendi sono molto bassi, la disoccupazione alta, è difficile arrivare a fine mese, una casa poi quasi proibitiva ed i servizi come sanità ed istruzione una volta gratuiti e garantiti oggi sono sempre più rari”. La conversazione procede piacevole, i ricordi personali si incastrano uno con l’altro, “sai io sono musulmana ed avevo dei vicini serbi, eravamo ottimi amici, poi da un momento all’altro ci volevano nemici, non ci è interessato nulla, conoscevamo quella gente da sempre e ci siamo aiutati come potevamo uno con l’altro. Per decenni musulmani, serbi, croati hanno vissuto pacificamente insieme, come era possibile che all’improvviso ci ritrovavamo a combatterci?” e poi ancora “quando ero piccola mio padre, musicista, mi portava spesso in tour con lui, ricordo l’Italia e gli altri paesi europei, era bello girare tranquillamente ed essere rispettati come popolo”. Prima di salutarci gli chiedo di Tito, “avevo 5 anni quando è morto, me lo ricordo quel giorno, giocavo con una amichetta, poi i miei genitori che piangono come molti altri per strada, noi che non comprendevano e la mamma che mi richiama a casa. Un giorno molto triste per la Jugoslavia, l’inizio della fine di quel sogno che è durato quasi cinquantanni”



* pubblicato nell’antologia del IV concorso “Poetiche Ispirazioni” indetto dal Comune di Vigano (Lc)

Nessun commento:

Posta un commento