domenica 31 luglio 2011

Mostar, un ponte fra le culture

Sono circa le 12 quando arrivo a Mostar, fa un caldo torrido e la città mi sembra deserta. Lascio la stazione e mi incammino alla ricerca di un letto per la notte. Trovo posto in un piccolo ostello a gestione familiare.

Giungo in centro e un via vai di persone mi circonda, i bar sono pieni di uomini e donne che bevono caffè e parlottano. I numerosi edifici che supero sono tutti crivellati di colpi, probabilmente schegge di mortai o proiettili di armi di grosso calibro.  A 16 anni di distanzi restano ancora là, sotto gli occhi di tutti, i segni della tragedia che si è consumata in questa magnifica terra...

L’incontro con la prima moschea e con l’imponente minareto dal quale risuona la voce del muezzin, mi avvisa che sto per entrare nella città vecchia. Le vie acciottolate dell’antico quartiere di epoca ottomana, pieno di negozi di artigiani, restano tuttora un piccolo gioiello.

Spettacolare, affascinante, meraviglioso. Lo stari most, il ponte vecchio che collega le due sponde della Neretva e che dà il nome alla città, si apre davanti ai miei increduli occhi. Quello che fu per secoli il simbolo di questo luogo, e che poi divenne l’emblema della tragedia che si stava consumando nei Balcani, è stato oggi ricostruito in maniera fedele all’originale. Realizzato nel 1566 venne distrutto nel 1993 dai bombardamenti croati, ma fortunatamente nel 2004 fu eseguita l’opera di restauro riconsegnando alla città un patrimonio fondamentale.

Oggi è l’attrazione turistica principale e vede centinaia di persone visitarlo ogni giorno, purtroppo molti di essi scappano via senza ammirare le altre meraviglie ma soprattutto senza vivere le atmosfere che offre questo luogo. Proseguendo una vecchia tradizione, i membri del club dei tuffatori si cimentano in spettacolari salti proprio dalla balaustra del ponte, non prima però di aver raccolto intorno a sé gli incuriositi turisti ed aver racimolato una determinata somma in denaro.

Poco più avanti l’ultimo lembo della zona musulmana, pieno di ristorantini e caffè, prima di giungere in Bulevar/Starcevica, quella che fu la linea del fronte. La via, parallela al fiume, divide i quartieri bosniaco-musulmani situati ad oriente da quelli croato-bosniaci situati ad occidente.  E’ qui che i segni della guerra sono maggiormente vivi e palpabili.

Una lunga serie di edifici completamente distrutti, un’immagine di devastazione totale. Fabbricati senza tetti, muri abbattuti, cumuli di macerie, solo scheletri di quello che furono. La follia umana appare chiara, come in un flash la realtà ti porta a pensare a quei lunghi giorni di guerra, a quelle che erano le abitazioni e le vite di centinai di esseri umani.
Avventurandosi all’interno, oltre ai detriti e immondizia è ancora abbastanza facile trovare numerosi bossoli. Nessuno ancora è stato in grado di recuperare quei luoghi, di restituirli ad una vita migliore, ma forse è bene così. Un monito costante per le future generazioni.

Miran è un ragazzo di 32 anni, è lui il gestore e proprietario del mio alloggio. Un tipo simpatico ed intelligente che ama parlare e conoscere persone. Nel piccolo e grazioso giardino del suo ostello, dove su un muretto campeggiano delle granate, mi racconta la sua storia.

Poco più che ragazzo durante il conflitto ricorda bene quei difficili momenti. Non ha combattuto ma ha dato il suo contributo portando viveri, medicinali e aiutando i feriti. Il suo volto diventa serio e triste quando mi parla dei parenti e degli amici che non ci sono più, uccisi in un conflitto fratricida. Uomini e donne che fino a poco tempo prima vivevano insieme, in pace ed armonia, in un unico grande paese e che poi furono travolti da una follia etnica e nazionalistica.

La tragedia non riguarda solamente gli anni della guerra ma anche i seguenti. Il suo racconto prosegue infatti con il periodo della difficile e dura ricostruzione in cui svolse il servizio militare. La sua rabbia esplode quando mi parla dell’Onu e dei caschi blu, pronti ad offrire qualche migliaio di dollari al mese a chi si fosse offerto di partecipare allo sminamento di zone isolate e fuori città, mentre a Mostar uomini e donne continuavano a morire sulle mine antiuomo. Risentimento e dolore si alternano sul suo volto, “io volevo aiutare i miei concittadini, salvare vite umane, ma a loro questo non importava”. Ormai non riesce più a trattenersi, il pensiero va alle persone care perse e sulle sue guance scorrono le lacrime.

Quelli si che erano bei tempi”, la repubblica Jugoslavia è rimpianta e ricordata come un periodo felice. “Potevamo girare tranquillamente in tutta Europa ed eravamo rispettati come popolo”. “Lavoro, casa, istruzione, sanità, avevamo tutto e non importava se eri serbo, croato o musulmano, si viveva insieme con rispetto ed armonia e tutti con le stesse opportunità”. Ringrazio Miran per la preziosa chiacchierata, uno sguardo di intesa poi la stretta di mano e gli auguri per una vita felice.

(pubblicato su Il Reporter quotidiano on line)

1 commento:

  1. penso che l'odio abbia qualcosa di istintivo nel genere umano. Da piccoli spesso l'unica forma di socialità era picchiare il nuovo, il vicino, il diverso e attraverso questo primo approccio o battesimo, spesso si diventava conoscenti, amici e intimi. La brancopatia di solito si risolveva così, ma dove interessi economici e politici ci soffiano sopra si hanno gli effetti drammatici e catastrofici della ex Jugoslavia....

    ti pikkio io ma mai in tuo nome

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